Non per le medaglie e per le ovazioni

La copertina del volume di Giuseppe Orlando D'Urso sul tributo di Corigliano d'Otranto alla Grande Guerra.

Presentato al pubblico e alla stampa il volume di Giuseppe Orlando D’Urso sui venti della Grande Guerra in uno sperduto paese del Sud Italia, Corigliano d’Otranto, e la tragedia immemoriale dei suoi eroi contadini, con il moschetto in mano, mandati al massacro, chissà per cosa.

«Un giorno che la terra / sembrava tutta in pace e in armonia / scoppiò improvviso il grido della guerra / e lugubre si sparse in ogni via.

Era l’inizio di un lungo componimento...

Ancora vivida, a distanza di cinquanta e più anni, l’immagine di Piazza San Nicola imbandierata, gremita di uomini e donne – molte “nell’ovale di fazzoletti neri” – con medaglie, croci e nastrini tricolore… e la banda, il sindaco, il maresciallo, il parroco, il direttore didattico, gli insegnanti, le autorità… e noi, ragazzini, si cantava l’Inno di Mameli, Il Piave mormorava, La bandiera tricolore… e la vecchia foto custodita tra centinaia rievoca Rosanna Campanaro anche nel ruolo di “suggeritrice”, nel caso avessi perso il filo, mentre a memoria declamavo a tutta voce quel lunghissimo eloquio commemorativo di cui si è smemorato il prosieguo, dispersi i fogli protocollo che lo contenevano; declamato con enfasi, con appropriate modulazioni perché il senso di quelle parole giungesse dovutamente non solo alle orecchie, ma soprattutto alle menti dei presenti».

Ancora una volta Giuseppe Orlando D’Urso ci sorprende piacevolmente con uno dei suoi incipit originali quanto suggestivi, più vicini al genere del romanzo che a quello del saggio storico.  

Il lettore si trova immediatamente avvolto in un periodare ampio, voluttuoso, ricco di aggettivazioni, strutturato spesso in maniera ipotattica, ma non alieno dal ricorso alla costruzione paratattica allorquando il discorso lo richieda. Un periodare colto, articolato, variegato, sempre piacevole e accattivante per il lettore che ne resta affascinato. E nonostante ciò, una scrittura mai supponente, mai oscura o involuta, una scrittura chiara e incisiva.

A questo stile narrativo, ma nel contempo raziocinante, argomentativo e suadente, Giuseppe Orlando D’Urso associa, come sempre, un rigore storico veramente eccezionale.

Al di là delle sue considerazioni e riflessioni sui fatti, sugli avvenimenti, sui personaggi, e insomma sulle cause e sulle conseguenze delle vicende storiche di cui tratta, egli non inventa nulla, non infioretta, non svicola, non aggiunge mai orpelli deformanti; anzi di ogni fatto, di ogni avvenimento, di ogni accadimento – anche di quelli di importanza minore o addirittura minima – egli dà sempre contezza al lettore, fornendo immancabilmente la fonte d’archivio o il documento da cui con severità inflessibile e rigore di indagine, con disciplina e scrupolosa acribia di storico, quel fatto, quell’avvenimento, quel particolare egli ha desunto.

Ed è quanto fa anche in questo suo ultimo stupendo libro sulla prima guerra mondiale (Non per le medaglie e per le ovazioni… Corigliano d’Otranto nella Grande Guerra, Edizioni Grifo, 2016), denso di contenuti e incantevole nella splendida forma data dal grande formato, dai colori, dalle foto, dalle cartoline d’epoca, che non hanno mai una funzione meramente illustrativa, ma anzi assurgono alla dignità di documento storico per il loro nesso specifico con le vicende e i personaggi cui si riferiscono.

Volume di grande interesse, anche se sono trascorsi cent’anni. D’Urso questo problema se lo pone (“A chi interessa, a cosa serve sapere cosa è successo cento anni fa?” si domanda); ma poi supera positivamente la domanda in termini di monito per tutti noi e per le future generazioni. Insomma, historia magistra vitae, per dirla con Cicerone. Anche se quella lezione non giovò all’umanità; anzi proprio perché non le giovò.

Interessante perché è giusto non dimenticare; perché è importante serbare memoria di quei fatti, di quei dolori, di quelle vite spezzate, di quegli atti di eroismo, di quelle famiglie dilacerate. Interessante perché la condanna della guerra, di tutte le guerre, va reiterata sempre; perché la pace, come la libertà, non si conquista mai una volta per sempre, ma deve essere tenacemente perseguita giorno dopo giorno.

Cassino, 1915.

Cassino, 1915.

Interessante perché Giuseppe Orlando D’Urso ha saputo rendere ancora più intrigante, più avvincente, più coinvolgente l’argomento, mediante due impostazioni di fondo, molto importanti, che caratterizzano il lavoro e, come si suol dire, fanno la differenza.

Prima di tutto, l’Autore non si è limitato alla sola ricerca negli archivi; lavoro questo, peraltro, necessario per qualsivoglia serio discorso storico. Se D’Urso avesse circoscritto a ciò la sua indagine, quasi certamente avremmo avuto una mera sfilza di nomi dei coriglianesi che presero parte alla Grande Guerra: nome, cognome, data di nascita, numero di matricola, data della morte oppure, più spesso, data in cui il soldato veniva dichiarato disperso (il che equivaleva a dire morto), eventuali medaglie al valore. Insomma, le scarne notizie dei fogli matricolari.

No. Egli ha esteso la ricerca sul campo, interrogando i suoi concittadini; andando casa per casa; ricercando lettere, missive, cartoline postali, telegrammi, comunicazioni di morte, dichiarazioni di irreperibilità, cartoline di propaganda bellica (una addirittura, secondo il gusto dell’epoca, in endecasillabi a rima alternata), fotografie, medaglie, onorificenze (anche relativamente recenti, come il conferimento nel 1990 della Cittadinanza Onoraria al coriglianese Fuso Luigi, morto sul Monte Pasubio, da parte del comune di San Biagio di Callalta); ricostruendo il vissuto dei nostri eroi e delle loro famiglie, il lavoro, le condizioni economiche, ecc.

Ecco perché quegli eroi coriglianesi non sono soltanto dei nomi. Ecco perché essi balzano fuori dalle pagine del libro come da un film che ne avesse ripreso le fattezze, i vestiti, le abitudini, il lavoro precedente al conflitto, il contesto socio-economico e familiare. Insomma, in una parola, il loro mondo e le loro abitudini di vita. Un esempio per tutti: Lolli Domenico. C’è qui un vero e proprio affresco di lui e della sua famiglia. Quattro figli maschi in quella famiglia e tutti in guerra. Domenico, disperso (cioè mai tornato, morto); Vito Antonio, deceduto per malattia contratta in servizio militare.

In secondo luogo – ecco l’altro elemento d’impianto dell’opera, che la rende particolarmente pregevole – tutte quelle vicende vengono inserite da D’Urso da una parte nella storia più grande (quella nazionale e mondiale dell’immane tragedia che fu la Prima Guerra mondiale), dall’altra nella storia locale, nelle condizioni economiche e sociali della Corigliano del tempo, ricostruite in maniera dettagliata e precisa.

E tutto ciò sempre con i documenti e le carte alla mano; compulsando gli archivi; riprendendo le delibere consiliari dell’epoca – dalle quali traspare anche la mentalità e la cultura del tempo, direi quasi l’aria che si respirava – analizzando le misure adottate dall’amministrazione comunale in ordine alle opere di risanamento e miglioramento di vie e piazze, alla creazione e ampliamento delle scuole elementari, alle questioni inerenti alla condotta medica, alle opere pubbliche finalizzate principalmente a dare lavoro ai tanti disoccupati, alla nascita del nuovo borgo nel cosiddetto giardino grande, alla costruzione della nuova casa comunale proprio durante il conflitto mondiale, alle attività industriali, all’opera svolta dai Salesiani.

Insomma, uno spaccato della vita coriglianese alla vigilia, durante e subito dopo la Grande Guerra.

Non manca il capitolo sugli effetti collaterali: alcolismo, depressione, crisi isteriche, pazzia. Elementi questi che originarono la nascita della cinica categoria dei cosiddetti “scemi di guerra”.

Pregnanti le riflessioni intorno alla disillusione di chi, tornato dalla guerra, non ricevette quelle concessioni di terre che il governo aveva tante volte sbandierato, e alle difficoltà di reinserimento dei reduci nella vita sociale.

Colpisce non poco che l’Autore abbia scoperto proprio attraverso la ricerca finalizzata alla scrittura del libro che suo padre, D’Urso Paolo Antonio, aveva fatto la Grande Guerra. È il fenomeno della rimozione, sulla quale non mancano amare considerazioni.

Il titolo, tratto da un’opera di Piero Jahier, non rappresenta una ricercatezza né tantomeno una mera citazione. Esso, con la sua forte negazione iniziale, esprime l’essenza stessa della partecipazione del popolo italiano alla Grande Guerra; illumina lo spirito di quei poveri coriglianesi, di quegli eroi disconosciuti e dimenticati dalle istituzioni nazionali che, al pari di tanti uomini del Mezzogiorno d’Italia, andarono a più di mille chilometri di distanza a combattere una guerra di cui, il più delle volte, ignoravano i motivi.

Perché le guerre le dichiarano i re e i governi, ma le combatte il popolo; perché, come titolava un noto programma televisivo, la Storia siamo noi; perché per Giuseppe Orlando D’Urso “…nun è Storria sulu quidda crande, / ddunca fannu le gquerre e suntu attori / reggine, papi, rre e conquistatori, / e nu sse cunta te cinca a mmutande / fice la fama a quiddi cu sse spande”.

Quegli uomini in mutande, quasi tutti contadini analfabeti che lasciarono la zappa per imbracciare il moschetto, non andarono certo a combattere per le medaglie né per le ovazioni.

Franco Melissano

Una cartolina per i soldati al fronte.

Una cartolina per i soldati al fronte.