Storie di ordinaria emigrazione

Dopo l’accordo tra l’Unione europea e la Turchia sulla crisi dei profughi, da più parti definito ambiguo e vergognoso, siglato sulla pelle dei migranti, torna utile la rilettura di “Lavoro in movimento”, taccuino di viaggio dei melissanesi che, per fame di lavoro, emigrarono all’estero. Senza più ritorno.
“Prima di partire per il Brasile, abitavo in Via Castello. Mio padre
era un carabiniere in pensione e, pur facendo l’autista presso la famiglia
Santaloja, non ce la faceva a portare avanti la famiglia (moglie e quattro
figli, ai quali si erano aggiunte la moglie e le due figlie di mio fratello
Nino...). Dopo una quindicina di giorni, all’arrivo in Brasile, raggiungemmo le
zone interne del Paese e trovammo lavoro in una fazenda. Chiesi a un compagno
di lavoro perché andava scalzo... vivevo in una condizione di semischiavitù.
Zappavo dalla mattina alla sera. Per dissetarsi c’era una bacinella d’acqua...
l’alimentazione era così scarsa... Alla fine del mese veniva un contabile e
fatti i conti risultava che il nostro lavoro non bastava per pagare vitto e
alloggio”, Aldo Ponzetta, Melissano, dal Brasile (dove oggi vivono 30 milioni
di oriundi italiani).
La password narrativa è viva, cruda, verista, non chiede
decodificazioni. La prosa è di chi ha studiato poco, e non per scelta, ha
dovuto lasciare al massimo dopo la quinta elementare per lavorare la terra. Più
sapide di mille saggi di sociologia, accademici, al cloroformio, pregni di
conformismo, 51 microstorie che sfociano nel mare magnum della Storia nella
millenaria avventura dei popoli che nei cinque continenti cercano una vita
dignitosa e il pane lontani dal demo d’origine.
“Lavoro in movimento. Storie,
volti, documenti dell’emigrazione melissanese”, a cura di Fernando Scozzi è
tutto questo e anche di più. Rileggerlo, oggi, offre spunti per interpretare la
realtà e capire la straordinaria pressione dei popoli alle frontiere.
“Dopo aver ottenuto il permesso
di espatrio, in possesso del passaporto e della richiesta di lavoro da parte
della Volkswagen, si partiva dalla stazione di Lecce con prima tappa il Centro
di Emigrazione di Verona. Lì, si rimaneva a disposizione di medici italiani e
tedeschi che, dopo aver valutato il nostro stato di salute, concedevano l’autorizzazione
per l’ingresso in Germania. Dopo un viaggio di circa 27-28 ore si arrivava alla
stazione di Wolfsburg...”, ragazzi alla Volkswagen.
La guerra aveva aggravato la già dura situazione della gente di
Melissano, cuore del Salento (allegoria nuda dell’intero Sud). Nel 1945-46
erano tornati dal fronte i prigionieri e i reduci, ma pane per tutti non ce n’era.
La terra era nelle mani di pochi, gli agrari, e se la davano in colonia,
pretendevano denaro a garanzia e il 60% del prodotto. Cioè, tutto.
“...la gelata che nel mese di
aprile 1955 pregiudicò totalmente il raccolto di uva mi fece rompere ogni
indugio... feci domanda per partire in Sudafrica. Mi convocarono (insieme ad
altri 47 paesani), ma fummo giudicati idonei solo in quattro”, Aldo Pignari,
dalle miniere d’oro del Sudafrica.
Melissano è dunque l’icona dialettica dell’emigrazione del Sud
italiano: Sicilia, Basilicata, Calabria, Campania, ecc. Identiche le dinamiche
sociali, economiche, politiche, il sostrato antropologico. I giovani hanno
fame, energia possente, ansia, desiderio di penetrare il futuro, di farsi una
famiglia, di osare nuovi orizzonti.
È il periodo storico di Di Vittorio e delle occupazioni delle terre: l’Arneo,
per dire, sublime il reportage del poeta Vittorio Bodini. Anche i braccianti di
Melissano tentano di prendersi le buone terre dei Colosso, in agro di Ugento:
finisce con lo sgombero forzato, tumulti, denunce, processi. Troppo
spontaneismo, non ci sono avanguardie politiche all’altezza della mission.
“Marzo 1960, stazione di Lecce,
quattro carrozze del treno Lecce-Torino sono piene di ragazzi melissanesi: non
partono per una gita scolastica, ma vanno a cercare lavoro nelle cascine del
torinese. Sono gli emigranti-bambini: per alcuni di loro, di 11 anni, finita la
quinta elementare, comincia l’esodo... per circa 300 ragazzi cominciava l’attività
lavorativa...”. L’emigrazione accelerò la fine del modello di civiltà rurale
che durava da secoli. Il latifondo fu poi parcellizzato. Gli emigranti
tornarono al paese e comprarono quel pezzo di terra degli agrari che avevano
zappato da sole a sole, si costruirono una casa, il loro mito: il boom
economico autarchico.