Salento dell'erba amara

Viaggio a ritroso nei profumi della cucina salentina, alla ricerca dell’antica cultura del cibo e della tavola, di memorie e di prodotti tipici dal gusto inconfondibile, che evocano la bellezza dei luoghi, l’identità del territorio, la storia della sua gente. Aromi, sapori, voci, tradizioni autentiche e specialità culinarie, che rappresentano oggi l’eccellenza dell’enogastronomia italiana e uno straordinario patrimonio da promuovere, difendere e conservare.

Il 13 febbraio 1715, poco prima dell’alba, un vascello senza gente e senza vela s’incagliò, con un lamento sordo di assi contorte e schiodate, contro la torre vecchia di Montilongo, nel Capo di Leuche, sotto gli occhi ancora assonnati dei pescatori. La cosa a tutti sembrò di cattivo auspicio. Nei giorni precedenti un caicco veneziano e un brigantino di Genova, la “Fortunata Caterina”, erano stati assaliti e depredati da pirati tripolini, e una lancia maltese era sfuggita per “special grazia” della Vergine santissima al vivo fuoco di uno sciabecco algerino. Al largo di Tricase, il giorno prima, una barca aveva perso l’intero equipaggio, tre uomini validi e due ragazzi, catturato da una galeotta corsara. Quella notte, poi, il grecale aveva portato burrasca e il mare muggiva ancora rabbioso, minacciando rovine.

Senza insegne, e senza nome, nero come la pece che ne disegnava una forma compatta e minacciosa, lo scafo portava sicuramente pessime notizie.

Trasportava invece un carico di essenze, di spezie e di droghe, che il regio giudice di Alessano, sentiti i testimoni e il sovrintendente dello scalo, requisì come merce di contrabbando: sesamo, zenzero, cannella, pepe nero, zafferano, chiodi di garofano e noce moscata finirono ammassati in un disordine di profumi intensi nei fondaci della dogana. Il vascello invece fu sequestrato e condotto alla fonda nel porto di Otranto, dove un poco alla volta marcì irreparabilmente. Nessuno reclamò il carico: un tesoro immenso, per quei tempi, senza padroni.    

Erano rarissime le spezie, in tutto il Salento, e sottoposte a dazio. E altrettanto introvabili le droghe, che provenivano dall’Oriente e solerti arrendatori provvedevano a trafficare con il laudano e le trecce di corallo. Negli occhi degli anziani baluginavano ancora le distese di zafferano della campagna otrantina e galatinese, e lo smercio in tutte le contrade del regno, ma era, appunto, la memoria di un secolo prima e anche più: lo zafferano ora proveniva dalla Sicilia, dove gli arabi lo impiegavano per un’acre escabeche di pesce marinato.

Arido di sua natura e con poche cisterne dove le anguille nuotavano lente, il Salento era una distesa di erbe e di verdure selvatiche, che radicavano tra rocce preistoriche levigate dal sole, fino al mare. Dominavano le mense e il linguaggio comune le foje reste, le erbe spontanee, la calendula e il radicchio, il grespino e l’aspraggine, i cardi e la paparina, la rucola e la borragine, le cicorie e l’orobanche, che per decenni saranno il piatto unico della cucina locale, le foje ‘mmische, mesticanza di fame e di disperazione, che la “Statistica del Reame di Napoli”, nel 1811, non mancò di registrare: «In genere le popolazioni di Terra d’Otranto inclinano all’erbivoro. Li contadini non assaggiano la carne che tre o quattro volte l’anno, nelle maggiori solennità. La base del nutrimento delle popolazioni è nel pane, nei legumi, nei vegetali». Se mancavano questi, l’acquassale era una trappola o, se si vuole, uno splendido inganno: pan rozzo, qualche goccia d’olio, origano, e acqua di mare.

In prossimità della costa, dove l’olivo cedeva già il passo al fico e alle palme, le erbe avevano nomi che odoravano di sale: anemoni, crìtimi, salicornia, lattuseddha, salsodda, sèvica de mare, e i bastimenti di Napoli e di Venezia, che stivavano botti di sarde, alici spinate e fragaglia, le portavano a bordo per la navigazione: pasto unico con le vope, con il lardo e la salissia, il finocchio marino.

«Oju e sale, ogni erba vale»: nulla del poco che cresceva veniva trascurato, dal papavero all’amarissimo zangune, dalle ortiche alla spurchia, che nell’immaginario collettivo diverrà paradigma di sfortuna e di sorte avversa, dopo aver sfamato con i suoi teneri germogli intere generazioni di contadini. E nulla sarà dimenticato, in questo intruglio di erbe e dileggio, persino in soprannomi feroci come rasoiate: manciapaparina (Miggiano), manciabrufichi (Andrano e Castiglione), manciabrunitte (mangiaghiande, Depressa), ventri ‘nchiati (ventri gonfi per la malaria, a Gemini e Strudà) e ventri janchi a Salve, Gagliano del Capo, Otranto e Montesano Salentino, per il pallore dei prolungati digiuni, manciapasuli (San Cesario), manciaculummi (Taurisano), cucuzzari (Cursi, Tricase, Scorrano), cojecicore (Vernole), carnocchiulari e racàli (mangiatori di rane, Aradeo e Lequile), taddhuti (ostinati e duri di testa, come lo scapo dei cipollacci, Morciano di Leuca): personaggi a volte lunatici e pittoreschi, interpreti lungo la verticale dei tempi di una miseria amara e di un’astinenza secca come una caremma.    
Ph. © Michele Rizzo

Ph. © Michele Rizzo

Sulla dorsale delle serre, il Salento scopriva, come una melagrana, due anime: ad est, l’olivo e il tempo lento, sospeso. Ad ovest, la vigna e la febbre del commercio.

La zona dell’olivo, dei trappeti e dell’olio lampante correva da Lecce fino a Castrignano del Capo, toccando Cavallino, Vernole, Lizzanello, Melendugno, l’intera Grecìa Salentina, Otranto, Palmariggi, Cursi, Maglie, Muro, Scorrano, Poggiardo, Tricase, Specchia, Alessano, Corsano, Gagliano, Patù e Morciano. Cinquecento e passa i frantoi (con punte massime a Cavallino, Lizzanello, Calimera, Cutrofiano, Martano, Maglie, Scorrano, Tricase, Alessano, Castrignano e Gagliano, Presicce, Salve, Morciano, Ugento); sparse tra Galatina, Maglie e Racale una trentina di fabbriche che trasformavano le sanse con la soda in sapone, e un fiume di olio che arricchiva i piccoli proprietari, i nachiri e i bottai (celebri, in tutto il Mediterraneo, le botti di castagno gallipoline), entrando di prepotenza negli usi, nei costumi e nella gastronomia salentina.

Dominanti le pietre, le paludi e la malaria, l’olivo non richiedeva lavori durante il periodo estivo, il più letale per le febbri miasmatiche e i contadini varcavano la linea d’orizzonte in cerca di altre terre, per la trebbiatura, la mietitura del grano, la vendemmia: una massiccia emigrazione interna, seconda per dimensione solo a quella dell’agro romano. Chi partiva, aveva solo la certezza di un viaggio lungo, a piedi nudi, e di un problematico ritorno, con miseri risparmi; chi restava, avrebbe continuato a scarnificare la roccia e a ingobbirsi sulla terra.

Dopo l’espianto, nel Settecento, delle foreste di leccio, e dopo la stagione breve dei gelsi e del baco da seta, quella dell’olivo, più che un’epopea, fu una tragedia, e i lupini aspri e amari il suo degno controcanto. Non c’è memoria, spontanea o letteraria, non c’è nenia, pianto rituale, filastrocca o traùdia che non siano ispirati da questo paesaggio di foglie d’argento, monodia eguagliata ma non superata dal tabacco, che avrà i suoi morti e i suoi eroi, le sue storie eccellenti, ma in cesure presidiate e vigilate sempre dagli olivi.

La stessa cifra essenziale, e lo stesso profumo, irrompono nella cucina salentina. Che è intrisa di olio e di olive, come i pizzi, le pucce e le vulijate del Capo di Leuca, o la grica sceblasti, focaccia di grano tenero con pomodori, cipolla, capperi, peperoncino e zucchine, o il suppuntu, la pirilla, la fucazza e la puddhica di acciughe, di fanfullicchi (pesci marinati) e olive nere: masse di grano, più spesso di orzo, a lievitare nella credenza o nella mattra-banca e a crepitare nei forni di pietra. Per almeno un secolo, la puccia è stato l’unico pane dei braccianti e dei contadini: con le cipolle al mattino, con le verdure a mezzogiorno, con i legumi la sera; e quando si sciamava all’alba nei poderi, ancora calda e fumante in tasca, scaldava le mani.

Leccine, casciole, ogliarole, cerasole, celline, o saracine, le olive erano l’ingrediente irrinunciabile nelle pittule dell’Immacolata e del Natale, nella paparina o fritta cu lu rapazzu (papavero e acetosa saltati, che nella versione con il finocchio diventa fritta maritata), nella pitta rustica; di derivazione greca, l’uso di immergere le olive ancora verdi in un impasto (conza) di calce e di cenere per cuocerle e intenerirle, conservandole poi in salamoia con aglio, alloro, rametti di lentisco e finocchio selvatico: sono le ulìe cazzate, che una volta gli uomini pestavano, con i piselli e le fave, ballandoci sopra, nelle aie o nei cortili.

Nei mesi in cui la mosca e la brusca illanguidivano gli olivi, le ipoteche divoravano la proprietà e persino i lupi si rintanavano nei boschi, la fame trovava altre scorciatoie: pane farcito di pipi diavoli, zucchine e melanzane, o con capperi, ricotta forte, sarde e alici; e se la crisi persisteva, e i bruchi e le locuste valevano più di uno sputo, pisciammare (frise e cipolla con gli avanzi della pasta e dei piselli, e del pesce nemmeno l’ombra...), oppure farinate di farro, di fave e di ceci, stemperate nell’acqua o nel latte tiepido; per i più abbienti, la salsa, pupiddhi o vope in salamoia di aceto, aglio, erbe selvatiche e pan grattato, che di solito veniva offerta a un povero invitato a sostituire il defunto nel pranzo del cònsolo.   

[Forse perché il Salento ha sempre avuto un urgente bisogno di protezione, forse perché la terra madre pulsa e preme dentro, le Madonne qui sembrano tutte delle massaie; quando ne senti il nome, te le immagini con il grembiule in mano: la Madonna del Pane (Novoli), la Madonna del Latte (Salice Salentino), la Madonna dell’Abbondanza (Cursi), la Madonna della Neve (Copertino e Strudà), la Madonna del Pozzo (Squinzano), la Madonna di Coelimanna (Supersano), la Madonna delle Morelle (Castrignano del Capo), la Madonna della Coltura (Parabita), la Madonna del Canneto (Giuliano), la Madonna dell’Uragano (Cocumola e Gagliano del Capo), quest’ultima forse intenta a sbarrare l’uscio e le finestre e a raccontare premurosa ai bambini la favola del bel tempo che verrà.

Sono le donne sante e devote del Salento, alle quali il Salento offre pucce e olive, mele cotogne e melagrane, preghiere e buone intenzioni, in un misto di profumi e suppliche di straordinaria intensità. Ma sono, anche, le donne della quotidianità, depositarie dei segreti della sopravvivenza, dei sapori e dei saperi di una cultura millenaria. Dice una preghiera della donna-madre a San Giuseppe di Copertino: «Ursùlu ti rrifríscu stà ddimmannu, ca marinata mi trou ti ranu e uergiu…» (“Ti chiedo un boccale di refrigerio, perché sono incinta di grano e orzo”): una straordinaria invenzione, la terra che chiede alla terra, la Venere dal grande ventre che si offre, dà frutti, perpetuandosi, nel lasso di tempo che la Sorte assegna tra la vita e la morte.

In principio dunque fu il lavatu, la crescenza, nucleo e lievito di ogni pane, a replicare il miracolo della maternità, in una dimensione magico-religiosa che il Padula riassumerà così per la Puglia e la Calabria: «La madre di famiglia cerne di giorno la farina e la sera, pria di andare a letto, fa la crescente. Scioglie nell’acqua il lievito e in un angolo della madia lo intride con la farina, e notisi che si deve impastare con una sola mano. Poi lo copre con crusca e vi fa sopra una croce, poi copre l’altra farina della madia e vi fa sopra tre croci. La dimane, quando la fornaia le dà ad ammassare, mette il sale bisognevole in un calderotto d’acqua calda, e lo versa nella farina, e la dimena finché le mani le rimangono asciutte e senza pasta. Poi s’infarina le mani con altra farina asciutta e appiana la pasta, e vi segna sopra tre croci». Il primo lavatu è sacro, e non si presta mai di sera, i gesti e il simbolismo ricordano da vicino le offerte sacrificali: la richiesta sotto forma di preghiera, il passaggio del lievito di mano in mano, il segno della croce sulla massa, il respiro lento del pane sotto una bianca coperta di lana, la pupa de pane moddhe che si modellava con il residuo dell’impasto: croccante lare del focolare, fragrante bambinello delle vergini salentine].

Dopo il “pan rozzo”, furono le frise, il pane biscottato, a incarnare il Salento, simili agli scogli grinzosi del mare («Rocce che parevano friselle nere», scriverà Bodini, pensando certo a quelle, scure, d’orzo), e interpreti per eccellenza dei lunghi digiuni dei contadini: con pomodori de ‘mpisa o pomodorini de pennula, origano, sale, a volte un filetto d’acciuga, una costa di sedano o uno spunzale, e la croce di olio, immancabile benedizione. Dentro capase di creta, frise e taralli con il pepe nero (chicchi enormi avevano gli “affucagatti” di San Cesario) nascondevano un’anima e un destino dal cuore duro, di pietra.

E subito dopo, la pasta senza uova, che da queste parti sarà, già nel primo Ottocento, una rivoluzione per forma e originalità: orecchiette e minchiareddhi (il termine ammicca alla forma, cava, ottenuta con l’aiuto di una sottile asta in ferro), cuddhurite e maccarruni, sagne torte, ricce o ‘ncannulate (ricordavano i trucioli delle pialla di San Giuseppe), tagliatelle, vermiceddhi, strascinati e zumàri, con sugo di pomodoro e cacioricotta, più spesso formaggio e pan grattato, o solo pane raffermo, piatto tipico della società agro-pastorale.

I salentini avevano i ciceri, gli arabi vi aggiunsero la trìa, in una versione combinata di legumi e lasagne, di cui alcune saltate con olio e aglio, dal sapore deciso e intenso; da Sibari e Crotone arrivava la lagana, la sfoglia di pasta (lagane, per estensione, erano le tagliatelle, condite con miele e cannella) e dalla Magna Grecia i sucameli, maccheroni sottili e sfilacciati, che si servivano a tavola durante i pranzi nuziali.

I segreti della pasta confluivano nel Salento per strade invisibili, affidati alla memoria dei mercanti e dei viatecari, e nel Salento la pasta perdeva i sapori dolci e speziati della cucina orientale e diventava con la casa, gli animali e la stalla una risorsa, un bene primario, prezioso per eccellenza, sinonimo di ricchezza e di domeniche a spasso con la camicia tinta della gloriosa e trionfale macchia di sugo. Con la pasta finì la stagione della fame isterica e della pellagra, della carità mendica e tarantata, e si cominciò a mangiare, come aveva già avvertito Empedocle per i Greci d’Occidente, «come se si fosse dovuto morire il giorno dopo, e si costruì come se non si fosse dovuto morire mai».

Quando si dava fuoco alle ristoppie dopo “Santa Maria de mezo augusto”, ad ovest delle Serre iniziava la vendemmia. In anticipo, perché le vigne non reggevano il peso. Da Squinzano fino a Santa Maria di Leuca, costeggiando lo Ionio, erano i paesi e la civiltà del vino: Trepuzzi, Campi, Guagnano, Surbo, Salice Salentino, Novoli, Arnesano, Carmiano, Veglie, Leverano, San Pietro in Lama, Lequile, San Donato, Copertino, Galatina, Nardò, Cutrofiano, Aradeo, Alezio, Gallipoli, Parabita, Melissano, Supersano, Matino, Casarano, Taviano, Alliste, Racale, Ugento, Acquarica del Capo, Alessano, Presicce, Salve. Paesi con terreni profondi, grassi, e profonda miseria. «Erano i più poveri, i più malarici, i più infelici, scrive il Presutti, sono diventati i più ricchi».

Casupole sparse di contadini, all’ombra di nessuna chiesa, si scoprirono paese. Collepasso, per esempio, avviticchiato a una sola lunga strada, dove arrancavano per ore e ore, ogni giorno, le carovane del vino.

Una ricchezza destinata a rivoluzionare la fisionomia e l’inurbamento di altre borgate (sorprendente un regolamento edilizio di Novoli del 5 ottobre 1879, che imponeva il rettilineamento delle vie per un più agevole trasporto delle derrate e del vino, l’abbattimento dei balconi bassi e in legno, il divieto di insegne indecorose e di «far cadere le foglie innanzi tempo»), ma non la vita dei loro abitanti (ancora Bodini, a proposito di Squinzano, da dove nel solo mese di settembre del 1893 erano partiti per il Nord Italia 417 carri ferroviari stracolmi di uva: «Paese senza tempo, povero e superstizioso, fatto di privazioni che non sanno neanche d’esser tali, e di polvere, di casucce colorate e di tendine di sudicia rete che ne difende l’interno dalle mosche. Paese d’uomini scalzi o con scarpe che ricordano antiche fanterie... Questo paese non sospetta lontanamente che il suo nome abbia tanta notorietà in Italia»).

Meno impietose, nel primo Novecento, le osservazioni di Martin Shaw Briggs: «Galatina non è una città che vive del suo passato... La stazione ferroviaria è in via di continuo incremento, ed è circondata da una folla di grandi depositi di vino e di olio, anch’essa in continuo aumento... Questi grandi stabilimenti, somiglianti ad immensi blocchi senza vie intermedie, danno un’idea di alcuni luoghi di America piuttosto che di Terra d’Otranto».

Ma erano i paesi anche con le maggiori esposizioni e con i più forti indebitamenti, dove l’usura, che si arrivava ad applicare anche ai frutti pendenti e a quelli futuri, era ai limiti dell’estorsione, con saggi di interesse che oscillavano dal 40% di Taurisano e Aradeo al 120% di Copertino e Spongano, al 160% di Galatone e Racale, al 200% di Taviano, al 300% di Alezio, al 480% di Carpignano Salentino fino al 1200% , drammatico e spudorato, di Presicce.

Ph. © Michele Rizzo

Ph. © Michele Rizzo

Senza l’incubo della pietra, le terre erano profonde e grasse: a perdita d’occhio, nel tremulo bagliore dell’estate salentina, i vitigni ad alberello (più moderni rispetto alle viti striscianti di origine caucasica) si confondevano con le masserie e si estendevano soppiantando il grano e l’olivo con ritmo febbrile. Vino, “pàssola” (l’uva passa, famosa quanto quella di Corinto), fichi tostati e mandorlati e grano richiamarono i grandi bastimenti, le strade interpoderali, la ferrovia. Gallipoli, famosa per la sua tonnara (dal 1329, per concessione sovrana), divenne uno degli scali marittimi più trafficati del regno.

«L’esportazione del vino – scrisse il Galanti – costituisce una della maggiori risorse economiche delle reali finanze borboniche, perché tale traffico consente alle casse dello stato di impinguarsi di valuta aurea». Il vino partiva verso Napoli, Roma, Firenze Venezia e da qui, a milioni di salme, raggiungeva Parigi, Londra, Berlino, Pietroburgo, Barcellona, la Svezia, la Danimarca e, oltreoceano, destinazioni fino ad allora impensate. Alla fine dell’Ottocento, i vini salentini erano universalmente riconosciuti; quelli da taglio e da pasto dei fratelli Solaro vincevano la medaglia d’oro a Roma e all’Esposizione di Buenos Aires, mentre a Londra il duca Winspeare e il suo “Castel di Salve” ricevevano il diploma d’onore e il primo premio all’Esposizione internazionale, spalancando al merum (gli altri erano solo vini da putea) le porte dei mercati continentali.

Se Lorenzo il Magnifico aveva prediletto il vino di Campi Salentina, s’imponevano ora il robusto Negramaro (l’uva cane del Capo), il vitigno più antico e diffuso, concentrato ad Alezio, Copertino, Leverano, Matino, Nardò, Salice Salentino, Galatina e Squinzano, usato già per correggere i vini nobili d’Oltralpe aggrediti a raffica dal male antico (l’oidio), dalla fillossera e dalla peronospora, il Primitivo, la vellutata Malvasia, l’Aleatico, il messapico e tardivo Bianco di Alessano: uve ricche di zucchero e generose di minerali, che accorreranno poi a risollevare le sorti – dopo i disastri della fillossera – dei blasonati vini francesi e dello Zinfandel californiano.

Se il Salento può vantare oggi pregiati vini DOC (Alezio, Copertino, Galatina, Leverano, Matino, Nardò, Salice Salentino, Squinzano) e uno dei migliori rosati italiani, ottenuto dalla vinificazione del Negramaro e della Malvasia nera, lo si deve soprattutto alla selezione e alla destinazione quasi forzata delle terre ai vitigni, in epoca post-unitaria, e al sostanziale “sacrificio” di una buona parte del Salento, quella che guarda ad Oriente, dominata dall’olio e dal fico, relegata all’industria del tabacco, miraggio effimero per intere generazioni (si pensi solo alla rapida decadenza di una città come Otranto, che pure aveva dato il nome a tutta la provincia, e ai mancati decolli delle “piazze” cittadine legate alla pesca, all’olio e al grano; si pensi ai contadini del Capo che raggiungevano ancora a piedi, negli anni Quaranta e Cinquanta, in direzione Manduria e Brindisi, i luoghi della vendemmia; si pensi alle storie dei palmenti e a quelle, sotterranee e oscure, dei frantoi).

Ecco, i palmenti e i frantoi, con il pane l’altra cifra dell’identità salentina, il vuoto a rendere di una «terra quasi incognita», schiacciata e assediata dal mare, dal quale, per una singolare legge del contrappasso, ha derivato le sue storie e le sue leggende minori. Quelle immaginifiche e maggiori, come i sapori, sono legate alla terra, alle cecore e fae, alle pignatte che borbottano, per ore, al calore discreto dei carboni accesi, ai ramasciùli e alle rape ‘nfucate, alle peperonate, alle parmigiane di melanzane, le pitte rustiche, lu cranu stumpatu, alle simmulate, alla licurda, ai pezzetti e alle cravatte di cavallo, alle satizze, alla trippa, agli gnemmarieddhi e all’arabo sangunazzu, alle municeddhe con la panna, fino alle salse e alle salamure con il misiricoi, il basilico ubriaco di sole, che è il vero, unico e irripetibile profumo di un Salento barocco per destino e natura. Tutt’uno con il fascinoso basilisco, che rimanda alle paure medioevali, allo sguardo che impietra, al drago tentatore, che è donna nel giardino dell’Eden nella gran chiesa di Galatina, ma turco bestemmiatore e serpe della diruta torre otrantina.

Tutto il resto diventerà contorno, stuzzichino, materia di bassa “cocineria”, con gli anni diverrà anche antipasto, in un’accezione sconosciuta da queste parti (essenziale com’è, la gastronomia salentina non lo prevede, così come è povera di cose dolci, che non siano i tradizionali mustazzoli, le carteddhate, i purceddhuzzi, le zeppole di San Giuseppe, un tempo contraltare della devozione o delle stagioni e ora svuotati di ogni significato) ed entrerà nell’atlante e nel calendario delle sagre e delle fiere, in un turbinio disordinato di folclore, riti ancestrali, devozione, sudori, sapori, contaminazioni.

Finché non tornerà il vento d’autunno a pulire l’aria e a lasciare sospesi i canti e i ritmi, a tacitare le assordanti cicale dell’estate, e noi e gli altri con le stesse domande, se mai finirà la fame, quella vera, il morso della mala crianza, quella che ti làstima e ti bestemmia dentro, con la paura di sentirti rispondere, come in un lamento, che la fame finirà, sissignore è certo che finirà, ma solo «quando tu vedrai l’uomo arare in mezzo al mare».