Crocifisso Valente. Il furore e la bellezza

Crocifisso Valente, "Paese d'incanto" (olio su tela, cm. 60x160, foto dell'Autore).
Nel corso di una cerimonia svoltasi il 22 dicembre 2016 nel Palazzo Municipale di Ostuni, alla presenza del sindaco Gianfranco Coppola, delle autorità civili e militari e di un folto pubblico, il pittore e scultore Crocifisso Valente è stato insignito della medaglia d’oro alla carriera, come uno degli artisti che meglio rappresentano e interpretano il fascino della “Città bianca” nel mondo.
Ho avuto il privilegio di conoscere due volte Crocifisso Valente. Il
nostro primo incontro risale all’estate terribile del ‘92, quando nell’aria
fumavano ancora i crateri di Capaci e di Via D’Amelio in cui avevano perso la
vita i giudici Falcone e Borsellino e si era frantumata la speranza dei
siciliani onesti. Nell’ostinato vagabondare per trulli e borghi, da murgia a murgia,
nelle terre di Federico, cercavo un motivo qualunque, una scusa, per smentire
almeno in parte i luoghi comuni dei colleghi giornalisti e dei quotidiani di
mezzo mondo (il sud mafioso, il sud mattatoio, il sud dalla faccia sporca, il
sud dio crudele ed empio, che come Saturno divora i suoi figli migliori).
Cercavo, insomma, un pretesto, un diversivo, per tornare a fare pace con questo
paese, e tenere a freno lo squalo che mordeva dentro.
Cercavo una scusa, trovai invece Crocifisso Valente. La sua galleria,
meglio la sua bottega, in via Cattedrale, era aperta quel pomeriggio, e la luce
obliqua del sole stemperava in ombre lunghe e morbide il bianco accecante della
calce. Entrai, attratto non dai quadri, che sembravano stare lì da un tempo
immemore, graffiti a colpi di spatola, ma solo per vedere chi fosse il pazzo
che buttava così i colori sulla tela: colori puri, densi, pastosi, carnali.
Definitivi e totali. Ricordo che pensai proprio questo, e lo dissi al collega
che mi accompagnava: «Un pazzo... solo un pazzo ha questo furore e questo
tormento dentro...».
Crocifisso era al cavalletto, perso tra tele, pennelli, spatole, prove
alchemiche di colori, cornici, ritagli di giornale, appunti e scarabocchi,
carte cartoncini acquerelli e statue, molte statue, alcune abbozzate altre
perfettamente compiute, che vigilavano occhiute dai quattro punti cardinali
dello studio. Ci lasciò fare, con discrezione. E poi raccontò, in una monodia
colta e raffinata: disse della città-presepe «dove la natura s’infalca e si
solleva in splendidi colli», del santo che scaccia la peste, dei cavalieri
bardati a festa, del prete di strada Pignatelli, e della luce senza eguali, del
bianco-stucco, la civiltà del bianco, che tutto riassume e tutto spiega. Non
parlò delle sue tele; neppure un cenno, che pur mi sarei aspettato, alla sua
attività. Disse ancora e solo della città belvedere, delle sue strade
lastricate, della sua ansia di mare, abbarbicata com’è sulla collina (a
distanza di anni, una grande mostra a Torre Vado, nel finis terrae, lo porterà a esporre le sue tele in riva al mare, di
fronte al sole che tramonta), della cattedrale dell’Assunta, tirata su dai
fedeli mentre dall’altra parte dell’oceano mare si scopriva il Nuovo Mondo,
degli alberi di olivo, umili e doviziosi, dei calanchi come vene carsiche delle
mani contadine, delle case di biacca e delle persiane (ostinatamente chiuse, o
appena schiuse, nei suoi primi quadri) dietro le quali indovinare il viso delle
donne, le donne dagli occhi di mandorla, donne e madri ancestrali, le «vergini
più che femine» che profumavano, disse, di terra, di troppi figli e di troppa
rassegnazione.

Crocifisso Valente, "Neve su Ostuni" (olio su tela, 40x100, foto dell'Autore).
Da quel primo incontro, ricavai l’impressione che Crocifisso avesse il
dono misterioso di scolpire i colori, sì, ma anche l’occhio lungo
dell’esploratore: viaggiava con la macchina fotografica, scopriva e annotava velocemente
con la matita o con il pennello in mano. Un brogliaccio di segni. E di ogni
viaggio, di ogni frontiera varcata o puramente immaginata, tracciava i contorni
nerofumo e raccontava le immagini su un diario di bordo (la tela) che
restituiva scene di una quotidianità che erano abituali a Ostuni come
dall’altra parte del Mediterraneo o nel villaggio più sperduto del mondo.
D’allora in poi, sono tornato a Ostuni per il solo gusto di arrampicarmi verso
la Terra, e tornare alle forme spigolose e al bianco osceno sbozzato da
Crocifisso Valente: ogni volta che ho superato la guglia della piazza,
svicolando verso la Cattedrale, mi è sembrato di entrare in un’arca senza
tempo, senza equipaggio e senza affanni, incagliatasi su uno di questi monti dopo
un mio intimo diluvio personale.
Perché la pittura, la scultura, come l’arte in genere, fanno di questi
miracoli: ti schiavardano le persiane, ti indicano la strada, ti mostrano le
piccole cose, le cose che stanno lì, ma tu non vedi, e ti restituiscono la
nostalgia della bellezza. La bellezza... In un mondo e un tempo dove è svanito
il gusto del bello, un mondo assediato dalle volgarità dell’etica e dalle brutture
dell’estetica, opportunamente il card. Ravasi ha ricordato, tempo fa, una
splendida frase del Siracide, un
libro dell’Antico Testamento. Dice il Siracide,
parlando dei patriarchi d’Israele: «Uomini che si sono appassionati a cercare
la potenza della bellezza». Ecco, penso a questi uomini intenti a cercare e
costruire la bellezza, guardando le tele di Crocifisso Valente, a questa sua
laica “teologia” del bello che dovrebbe salvare il mondo, per usare le parole
del principe idiota di Dostoevskij.
In tal senso vanno lette, io credo, le magnifiche tele delle chiese
rurali o i suoi splendidi cinquanta portali di Ostuni, che sono un invito a
entrare negli spazi domestici dell’altro, del vicino di casa, dello straniero,
del diverso: dietro ogni battente, c’è il tentativo di raccontare le stanze e i
bugigattoli dove alberga la bellezza. Non la bellezza ideale e statuaria,
immobile e pietrificata, di un idolo greco, ma una bellezza che s’incarna e
viene alla vita, si rivela e si fa “evento”. Parola stressata, questa, e fin
troppo abusata oggi, nelle nostre isole di banalità dove un balbettio diventa
un proclama e perfino la rissa e l’insulto registrano il pubblico pagante dei
grandi eventi.

Ostuni: Crocifisso Valente e il sindaco della "Città bianca" Gianfranco Coppola, il giorno della premiazione. Foto © Salvatore Valente
I quadri di Crocifisso, invece, sono scomodi, inquietanti, pongono
interrogativi, svelano il kalòs (il
bello, il vero, il giusto), lo portano a galla, e mettono impudicamente in
mostra le cose nascoste. E invitano a indagarle, a visitarle, a entrarci dentro
in punta di piedi, a buttarci dentro il cuore, avendo il silenzio come unico
spettatore. Perché il silenzio? Perché la sua pittura è una sorta di archivio
della memoria, un museo delle ombre e delle cere: personaggi, colori, visi,
profumi, affetti, luoghi in via di estinzione, come il breviario delle cose
morte e defunte di Gesualdo Bufalino. Resta solo la consolazione, di fronte a
questo deserto, a queste mura scrostate e spellate, a questi bastioni diruti,
che attraverso la pittura queste cose possano sopravvivere. Che possa rivivere
un paradiso perduto, dilapidato, per il quale i miti di una stagione felice –
un campo di papaveri, un agrumeto sferzato dal vento, una chiesetta di campagna,
una masseria, un muro a secco, una barca abbandonata sulla spiaggia, una
piramide di case e grappoli di gente seria (la gente è serissima, nei suoi
quadri) – rappresentano soltanto luoghi o voci della memoria scoloriti dal sole
e cancellati dall’incuria del tempo. La storia che corre divora le memorie, le
lascia arrugginire, le svuota dentro, come un dente cariato, infine le
disperde. Allora lo scrittore si ingegna con le parole e il pittore s’inventa
la scrittura del colore, come strumento di salvezza o, quanto meno, di
sopravvivenza. Dipingere e scolpire (lui che viene dalla nobile schiera dei cavatori e degli scalpellini di
Carovigno, che costringono il forestiero a camminare con lo sguardo rivolto in
alto, alle mensole dei balconi) è per Crocifisso un bagno di purificazione, una
resurrezione o, se si vuole, il miracolo di una stupefatta redenzione alla
quale si presta, e presta le sue opere disseminate in tutto il mondo, ormai da
sessant’anni.
La seconda volta che ho conosciuto Crocifisso Valente ha una data esatta:
vent’anni, due mesi e 22 giorni fa, l’età di Andrea, mio figlio, del quale
Crocifisso è, per tacito affettuoso accordo, nonno “onorario”. Bene, dico questo
perché, nonostante sia oggi all’università immerso nel cielo freddo
dell’informatica, mio figlio conserva ancora nella sua stanza un gioco
educativo, la “Strada maestra”, e un cavalluccio in legno, che Crocifisso gli
regalò quando aveva tre, forse quattro, anni. Per significare che uomo (marito,
padre e nonno premuroso) e pittore si fondono nella persona per esprimere, con
«ingenuo candore», come ha scritto Luigi Greco, quello che prima ho chiamato il
miracolo dell’arte: indicare la strada maestra, il sentiero aspro dove
cavalcare inseguendo le tracce della bellezza.
Ci voleva tutta la sensibilità di uno scrittore sudamericano, Eduardo
Galeano, amico di insonni letture, morto un anno fa e comunque troppo presto,
per sintetizzare questa delicata funzione dell’arte. Galeano racconta di un bambino,
Diego, che non conosceva il mare. Allora «suo padre, Santiago Kovadloff, lo
condusse a scoprirlo. Se ne andarono a sud. Il mare stava al di là delle alte
dune, in attesa. Quando padre e figlio, dopo un lungo cammino, raggiunsero
finalmente quei culmini di sabbia, il mare esplose davanti ai loro occhi. E fu
tanta l’immensità del mare, e tanto il suo fulgore, che il bimbo restò muto di
bellezza. E quando alla fine riuscì a parlare, tremando, balbettando, chiese a
suo padre: – Aiutami a guardare!»

Crocifisso Valente, "Centro storico, arco n. 2" (olio su tela, cm. 50x35, foto dell'Autore).